Libro: Lo Stato Innovatore

L’immagine artefatta di uno Stato pigro e di un settore privato dinamico è il fattore che ha consentito ad alcuni operatori economici di autoraffigurarsi come “creatori di ricchezza” e in questo modo di estrarre dall’economia una quantità di valore enorme.

La mia lettura

La prof. Mazzucato con questo libro si è intestata una battaglia intellettuale per riportare lo Stato al centro della scena dell’innovazione. L’intento è far capire al mondo che lo Stato non è una inutile macchina burocratica, invece è un fondamentale attore economico perché storicamente ha finanziato moltissime delle scoperte ed invenzioni degli ultimi 80 anni.

Questo è accaduto anche nella patria del liberismo, gli USA (anche sotto l’amministrazione Reagan), perché hanno investito centinaia di miliardi di dollari tramite strutture pubbliche come la DARPA, il Dipartimento dell’Energia, le Forme Armate o l’Nih (National Institutes of Heath).

A supporto della sua tesi, Mazzucato cita esempi storici relativi al mondo informatico, delle biotecnologie o delle energie rinnovabili. Ad esempio, gli investimenti pubblici in ricerca hanno portato all’invenzione di internet, alle componentistiche hardware usate negli smartphone e allo sviluppo del fotovoltaico. Con successi e fallimenti (dai quali recuperare i brevetti per un successivo sviluppo).

Perché tutte queste invenzioni non si sarebbero potute finanziare con capitali privati, cioè dai venture capitals (VC)?

Mazzucato spiega che si tratta di scindere tra incertezza e rischio. L’incertezza, a differenza del rischio, non è calcolabile (Incertezza di Knight). E un investitore finanziario a breve termine, qual è un Venture Capital, lo sa e non investirà mai in ciò che non ha un calcolabile ritorno economico. I fondi di VC aprono e chiudono in 10 anni. Per coprire il periodo di tempo necessario ad un’impresa di passare da “incerta” a “rischiosa”, è necessario un primo intervento dello Stato.

Quindi per la prof. Mazzucato, tutte le imprese private che negli anni hanno sfruttato le ricerche finanziate dallo Stato, non hanno restituito abbastanza alla comunità. Mentre chi è fallito, ha lasciato debiti insoluti verso lo Stato.

In sostanza, il sistema economico attuale ha il vizio di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite.

Mi permetto però di spezzare una lancia a favore delle imprese private che hanno attinto a ricerche finanziate da fondi pubblici.

Le critiche verso la Apple, o in generale altre imprese che operano nel settore hardware / IT, in realtà non tengono conto della difficoltà principale che si incontra nel lanciare un nuovo prodotto in quel settore.

Il punto non è la disponibilità in generale di nuove tecnologie all’avanguardia, finanziate in gran parte con soldi pubblici (perché nate all’interno di centri di ricerca di istituti pubblici).

Il punto è l’integrazione dei sistemi. La risposta è contenuta nella grafica sottostante. La grafica rileva l’importanza fondamentale della ricerca finanziata dallo Stato ma allo stesso tempo fa capire l’importanza del lavoro di integrazione che è stato fatto da Apple, o meglio, dagli ingegneri della Apple.

pag. 166 del libro

Nel caso Apple diamo a Cesare quel che è di Cesare.

Concordo pienamente invece che sia da rivedere l’attuale logica di divisione dei profitti (privatizzare i guadagni e socializzare le perdite) e la critica sul concetto di shareholder value. Il capitale paziente dello Stato non viene mai premiato, come non sono premiate a sufficienza le persone, i dipendenti, che contribuiscono al successo aziendale. Gli azionisti non rischiano molto di più di un dipendente solo perché rimandano i guadagni (incerti) al futuro. Il motivo è che se l’azienda in futuro fallisse, anche i dipendenti andrebbero a casa. Possiamo tranquillamente dire che ci sia una certa condivisione dei rischi tra azionisti e lavoratori.

Insomma, sarebbe utile avere un nuovo quadro per valutare in modo più equo il rapporto rischi-ricavi nell’innovazione, allo scopo di dare il suo contributo all’analisi e all’adozione di politiche pubbliche efficaci.

Cosa mi ha lasciato il libro “Lo Stato Innovatore

In conclusione, ho sicuramente bisogno di approfondire ancora questo tema perché tendenzialmente ho idee diverse. Ragionando sui punti esposti dalla prof. Mazzucato non mi sento di concordare che lo Stato sia un’imprenditore nato o che sia l’unico operatore economico da cui può nascere l’innovazione (radicale o incrementale che sia).

Ho almeno due dubbi fondamentali in merito:

  • Lo Stato è un’entità astratta, composta nel concreto da persone. Le persone sono più importanti di qualsiasi entità burocratica. Questo rileva nel momento in cui poche persone chiuse in una stanza decidono dove devono andare a finire miliardi di fondi pubblici, allo scopo di dare un’impostazione dirigista all’innovazione. Ma l’innovazione emerge anche quando emergono le persone. Per fare questo il ruolo dello Stato non sarebbe quello di fare impresa in sé, ma quello di dare l’opportunità concreta agli spiriti imprenditoriali presenti nella società civile. Ad esempio, supportando un modello che si chiama Entrepreneurial Facilitation, dove lo Stato non interviene finanziariamente nel capitale delle società coinvolte. Questo modello ha dimostrato di funzionare discretamente anche in situazioni dove il governo è stato in grado solo di dare sussidi per la sopravvivenza.
  • Pur dando ragione storica agli esempi proposti di “spinta” iniziale operata dai fondi pubblici, il libro non riesce ad esprimere argomentazioni controfattuali convincenti. Cioè cosa sarebbe successo con i fondi pubblici allocati in modo diverso. Non sarebbero mai nati l’iPod o l’iPhone oppure determinati vaccini? Non saprei dire. Se prendiamo ad esempio internet, è vero che è nato come progetto militare US per la comunicazione, ma è altrettanto vero che sono state persone come Marconi ad inventare la comunicazione a distanza a fine 800. Lui di fondi pubblici non ne ha visti una lira anzi venne etichettato come “pazzo” dall’allora Ministro italiano delle Poste e Telegrafi. Per finanziarsi con capitali privati andò a Londra. Certo, ha avuto l’opportunità di fare i primi esperimenti grazie al capitale investito dalla sua famiglia (qualcuno direbbe che ha attinto dal cosiddetto bacino dei “fools, friends & family”). E probabilmente ai tempi di Marconi i capitali privati erano più pazienti di oggi. Ma sostenere che non ci sarebbe mai stato un inventore in grado di creare “internet” con soldi privati, anche in modo diverso da come funziona oggi, non è secondo me realistico. Quello che voglio dire è che secondo me le persone, con le dovute opportunità, possono fare molto di più di quello che immaginiamo. Per lo Stato, la chiave è dare alle persone queste opportunità, tramite le giuste politiche pubbliche (esempio al punto precedente).

La battaglia discorsiva tra “meglio privato” o “meglio pubblico” rischia solo di radicalizzare due ideologie diverse, una più liberista e una più statalista.

Invece per avere un focus delle politiche pubbliche efficace, ci dovremmo concentrare sul punto in comune a queste due ideologie. Cioè le persone. Quelle che materialmente si mettono lì ed agiscono, grazie alla propria volontà personale di fare qualcosa di unico e di rivoluzionario.

L’identità dell’operatore economico che mette il capitale iniziale è solo una variabile dell’intera equazione. Uno Stato che investe pesantemente nel capitale umano e nella condivisione della conoscenza è secondo me la chiave di volta necessaria per far cambiare passo al nostro paese.

Ultima modifica di questo articolo: 14 Agosto 2022